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O B B E D I E N Z A
Elogio della povertà.
Via gli handicappati, i ciechi, gli storpi! Far rivivere il teatro della strada. Quello popolare, “verista”, un teatro capace attraverso la finzione scenica di produrre una scossa emotiva e provocazioni intellettuali movente per mettere in discussione la realtà data e noi stessi; quel teatro, avrebbe detto il drammaturgo polacco Jerzy Marian Grotowski, che ha significato “solo se ci permette di trascendere la nostra visione stereotipata, i nostri livelli di giudizio (….) mediante lo choc e il tremore che ci causa la caduta della maschera e dell'affettazione abituale”. Il compito primario del teatro è offrire uno spazio scenico ai fenomeni della vita, agli eventi quotidiani, alle routine di fallimenti e gratificazioni, restituendo al pubblico senso e significati in forma poetica, simbolica, per dilatare lo spazio interiore, emotivo, di ognuno di noi, secondo la bellissima definizione di teatro che ne da Thomas Otto Zinzi: “le forme dello spazio scenico sono infinite. Infinita è l'Anima dell'uomo che diventa Attore e che attraverso il pubblico torna Uomo”. E’ questa l’impronta artistica che troviamo nelle sue opere teatrali, un filo rosso che è come un marchio di fabbrica, rappresentato in regie originalissime e mai uguali a se stesse, ma prossime a luoghi e persone, da personaggi e situazioni che dalla vita arrivano in scena: da Io e te, a Mamma randagia, a Elogio agli sconfitti, a Genesi di un amore, a Dopo l’iceberg , a 487, a Passione secondo Luigi, a L’infinito che è negli uomini, a L’anticonformista, solo per citarne alcune tra le più significative. La creazione di uno spazio scenico, dice Zinzi, è finalizzata ad “ascoltare tutte le voci che non sempre riusciamo a sentire nei giorni feriali della nostra vita”. Tra queste voci c’è quella di una madre povera, che trascina sua figlia Obbedienza nel vagare nomade per le strade della sua città, alla ricerca di una luce, di un’occasione per svoltare, di una liberazione da un giogo opprimente, che non troverà. L’affresco poetico iniziale del testo, con le parole di questa madre, ha l’effetto doloroso di “un pugno in faccia”: “Obbedienza così la chiamai. La feci battezzare dalla pioggia che cadeva in una chiesa in piena ristrutturazione. Il suo padrino fu un muratore del cantiere che per regalo ci diede una carriola, per mettere comoda la bambina e portarla a spasso nel suo giorno di festa. Perché il battesimo non è un pranzo con la camicia bianca, né un confetto o una catenina d’oro: è l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’Universo!”. “La povertà è una cosa seria”, ammonisce l’autore, che con linguaggio radicale appone la sua dedica al testo: “A tutti i poveri perché di essi è il regno dei marciapiedi”.Si troverebbe tuttavia fuori strada chi pensasse che Obbedienza è una lezione morale sull’ingiustizia sociale, oppure una scrittura “politica” a sostegno di una causa giusta, ancorché velleitaria perché persa in partenza. Nient’affatto. La grandezza della scrittura di Obbedienza sta proprio nel suo linguaggio simbolico e paradossale: è la povertà, impersonata da una “mamma randagia” con figlia a carico e al seguito, spinta all’invisibilità, che dialoga con una serie di personaggi che della povertà ne hanno fatto una rendita e se ne servono. I poveri, infatti, sono utili, ci vuole dire Thomas Otto Zinzi: per mettersi a posto la coscienza con l’elemosina e la beneficienza, e continuare a essere indifferenti alle ingiustizie planetarie e domestiche; per giustificare una cinica retorica politica pauperistica di sinistra o quella della “lotta tra i poveri” tanto cara alla destra; oppure per propagandare il culto di un Dio falso, che sul bisogno e sulla tragedia individuale costruisce la continuità di un sistema clericale di potere; e via elencando: di sfruttamento in sfruttamento. La trama di Obbedienza porta ciascuno di noi a sentirsi un po’ quel “Don Euro”, personaggio chiave dell’opera di Zinzi, infastidito da questa presenza, e cinicamente impegnato ad approfondire in lei il senso di colpa – come se avesse una malattia - fino a farle comparire le stimmate nel corpo e soprattutto nell’anima: la povertà alla fine diventa l’autocertificazione di uno stato, quindi una trappola senza uscita per chi la vive e una rendita per tutti gli altri. “Tutta la vita – chiosa Zinzi - è un’espiazione per i peccati di altri uomini”.La deprivazione materiale, certo gravissima, è tuttavia la conseguenza della povertà di relazioni, del mancato riconoscimento sociale, della scarsa dignità con cui si tratta una persona. “Non faccio parte di niente e di nessuno, lo so, neanche della clientela di un chiosco”, è l’epilogo amaro ma eloquente di Obbedienza: è la voce del giorno feriale di una madre che non chiede denaro ma libertà, non chiede beneficienza ma piena cittadinanza, per sè e per sua figlia.Obbedienza è un’opera che va guardata senza filtri ideologici, né rivendicativi, ma rovesciando il punto di osservazione, quindi dal giusto verso: ossia come un “elogio della povertà”. Che in fondo è lo stesso auspicio di Grotowsky per il teatro, che debba essere un “teatro povero”, senza orpelli estetici e fuori da schemi borghesi, nel quale l’attore con il suo corpo e la sua voce si presenta “spogliato e vulnerabile” di fronte al pubblico, perché in questo gioco emotivo relazionale possa accadere un cambiamento, che è una lotta “per scoprire, per sperimentare la verità su noi stessi; per strappar via le maschere dietro le quali ci nascondiamo ogni giorno. Noi concepiamo il teatro - soprattutto nel suo aspetto carnale e palpabile - come un luogo di provocazione, una sfida che l'attore lancia a se stesso e anche, indirettamente, agli altri”.Nel solco del “teatro povero” di matrice grotowskiana, Thomas Otto Zinzi, sovrapponendo coerentemente metodo e contenuto, propone in Obbedienza il tema della povertà e dell’essere povero come scelta difficile – educativa innanzitutto - ma ineludibile per farsi vulnerabile all’altro. Una povertà intesa come “l’arte del togliere”, cioè di eradicare da se stessi l’inutile, il superfluo, l’effimero, come ci insegna l’opera di un grande scultore come Alberto Giacometti: la via giusta per cercare l’essenziale e il senso. Facendo spazio all’altro.Dalla vita alla scena e ritorno: è il mestiere del teatro, è il mestiere dell’attore che se lavora su se stesso può trasformare il pubblico nel laboratorio di un altro mondo.
*Articolo in uscita sul numero 4 della rivista online Passion&Lavorohttp://www.fimlom bardia.it/passionelavoro/
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