Racconti
      
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      accadde 
        alla 
        Clinica 
        degli 
      offesi
      T h o m a s O t t o Z i n z i 
         
      GL
      M’ero  intestardito, 
        volevo  che quella persona 
        capisse. 
        Attraversavo  la città, 
        ma  soprattutto attraversavo 
        un  periodo di vita 
        dove  portavo con me 
        una  torcia elettrica, 
        perché  la luce del giorno 
        non mi  bastava. 
        Passai  sotto la 
        Clinica degli offesi 
        e mi  soffermai sulla scritta 
      all’altezza  del terrazzo
      “chi sta male 
        sta ancora più male 
      se non è qualcuno”
      Impallidii.  Scartai una 
        caramella  e la mangiai 
        velocemente  per stare meglio. 
        Già,  per stare meglio… 
        Quante  cose dovremmo scartare! 
        C’è un  tale affollamento 
        di  solitudini volontarie 
        che  quelle vere sono 
        poco  credibili. 
        Vidi un  uomo che spalava 
        un po’  di neve 
        dalla  lapide di suo figlio, 
        incastonata  tra due guard rail 
        con un  vaso di fiori indelebili 
        e una  bandiera di uno Stato 
        che ha  un solo articolo 
        nella  sua costituzione 
        Art.1 Il Paradiso è uno Stato 
        fondato sull’ingiustizia della Terra. 
        Sentii  freddo alle mani, 
        le misi  per qualche minuto 
        sotto  la pancia d’un cane 
        disoccupato,  che si affilò 
        i denti  –lo lasciai fare- 
        alla  mia caviglia, 
        protetta  da calzettoni spessi 
      di  cotone caldo.
       Dovevo  andare 
        e andai  dove 
         volevo andare 
        anche  se andare 
        mi  costava caro, ma 
        volevo  che quella persona 
        capisse  e per capirlo 
      dovevo  andare.
      Tornai  indietro verso 
        la  clinica, ero curioso 
        di  conoscere gli orari 
        di  visita…capire di più, 
        far  visita ad un offeso e 
        se  possibile portare conforto. 
        Ripresi  la strada 
        con  passo deciso, ma 
        ancora  una volta mi fermai 
        e se ci dovessi andare  
        anche io lì a farmi ricoverare? 
        Esiste un pronto soccorso o 
        si prenota come un hotel? 
        Ero  uscito così deciso 
        dall’ufficio  e ora non sapevo 
        più che  fare. Misi la mano 
        in  tasca e presi la piccola 
        foto di San Nessuno che 
        aveva  una scritta 
        Non avere paura hai solo 
        bisogno di tempo. Baciai 
      la  scritta e ripresi il cammino.
      Rallentai  per un fastidio 
        al  ginocchio che si spostò 
        al  piede e poi al polpaccio… 
        anche il  dolore faceva avanti 
        e  indietro…non sapeva cosa fare. 
        Lentamente  camminai verso 
        la  stazione dei taxi, ce ne 
        erano  cinque, i primi due vecchi 
        e  squallidi, aspettavo che qualcuno 
        li  prendesse…non volevo salire 
        su una  utilitaria poco rappresentativa. 
        Il primo  autista mi guardava 
        e io  cercavo motivi nei colori 
        della  pensilina, ma arrivò 
        un  gruppo di meridionali con trolley, 
        appena  usciti dall’ennesimo concorso, 
      che se  li portò via tutti!
       Ripresi  a zoppicare e andai verso 
        l’est  della città,  
        il  fastidio stava sfumando 
      e  cominciavo a sentirmi meglio.
      Dunque,  m’ero intestardito, 
        perché  volevo che il mio amico capisse, 
        cioè  doveva capire quello 
        che non  aveva capito… 
        è per  questo che mi ero incaponito, 
      come si  dice al sud!
      Ma lui  non c’era, era chiaro 
        e anche  se mi accingevo 
        ad  attraversare la città, 
         non l’avrei trovato. 
         Io stavo cercando 
        di  farmi vedere impegnato… 
        nella  sua mente, in movimento, 
        indaffarato,  intelligente e intuitivo, 
        fisicamente  a posto. 
        Noi  cosiddetti uomini, 
        possiamo  avere questo potere? 
        Possiamo  farci vedere 
        dal  nostro meccanico  
        mentre  piangiamo? 
        Quel  consiglio d’amministrazione 
        può  accettare la mia disperazione? 
        Credo  proprio di no e malgrado 
        il  nostro rapporto poetico 
        con la  fede non  vogliamo 
        accettarci  neppure  
        con lo  sguardo, 
      noi uomini…stop.
      Tapparelle  di casa : 
        tutte  abbassate… 
        tende,  doppie tende, triple tende 
         che ci escludono dal censimento  
        d’un  quotidiano sentimento. 
        Nascondiamo   nudità, 
        ma  soprattutto abitudine, 
         felicità, povertà , tenerezza 
        e  impegno dietro la persiana. 
        Non si  può fare solo 
         beneficenza e quel gioco 
        natalizio  del cameriere 
        che  serve il pasto caldo 
      ai  senza tetto!
      Città  nascosta che 
        guarda  un film porno, 
        mangia  con le mani,  
        mena le  mani in famiglia, 
        nasconde  ricchezza, 
        genera  malattia… 
        Vuoi  andare a dormire prima di cena? 
        Vuoi  abbracciare quel cane peluche  
        anche  se sei un ingegnere? 
        Regalaci  questa tenerezza 
        a  finestre trasparenti 
        e  ci ringrazieremo 
        per  esserci scambiati  
        un po’  di bellezza  
      e di  miseria!
      Va  bene, va bene… 
        mi  stavo distraendo con i soliti 
        pensieri,  avevo una cosa precisa 
      da fare  e non mi dovevo perdere.
      Una  madre  
        con le  buste della spesa  
        usciva  dal mercato rionale, 
        mi  chiese una mano ,  
        l’aiutai  con piacere 
        Vede, io sono invalida! 
        Mi dispiace signora, 
        ma all’apparenza sta molto bene. 
        Tutte le mamme che perdono 
        una figlia, sono invalide e 
        girano con le stampelle 
        nel cuore.  
         
        Ora  cosa dovevo fare? 
        C’era  il reparto invalidi alla 
      Clinica  degli offesi?
      Me l’hanno uccisa, lo sa? 
        Non mi chieda come… 
        Non glielo chiedo, vuole  
        prendere un cappuccino con me? 
        Devo tornare a casa, 
        senza di me non ce la fanno, 
        lei sembra un anima in pena, 
        vuole venire a pranzo da noi? Mio marito  
        sarebbe molto contento d’avere 
      un ospite sconosciuto!
       Avrei da fare signora. 
        Cosa? Venga che le fa bene, 
        abito vicino e dopo riprendere 
      il suo cammino…
      Non  sapevo cosa fare, 
        seguire  la mia testardaggine o 
        lasciarmi  andare… 
        Certe  volte siamo stupidi, 
        pur di  non contraddire 
        le  nostre esili convinzioni, 
        perdiamo  le occasioni della vita 
        per  riempire il salvadanaio  
        dei  sentimenti che il più delle volte 
      ha pochi  spicci dentro.
      Va bene, signora, l’accompagno 
        solo per un caffè. 
        A stomaco vuoto?  
        Mi faccia il piacere e non sia così 
        diffidente, mio marito cucina meglio 
        di quegli cheffini in televisione, 
      lei andrà via soddisfatto!
      In fin  dei conti ero contento 
        dell’imprevisto.  
        L’altra  figlia, almeno credo, 
        mi  accolse con un sorriso e  
        un bel  paio di pantaloni aderenti 
        nella  zona calda, a nord delle gambe 
        e a  campana, a sud delle ginocchia 
        che  facevano intravvedere 
        la  punta dei calzettoni con una rosa sopra. 
                                                                                          Fece un cenno per farmi  accomodare  e allargando le braccia  
        mi fece  fare una carrellata di tutta la sala… 
        camino,libreria,  pianoforte e la finestra. 
        Stupito  dall’armonia del gesto elegante, 
        andai a  guardare il panorama  
      della  strada e dei palazzi da quell’altezza.
      La  ragazza non parlava  
        e io  neppure, 
        ma il  calore di quel momento 
        e quel  che vedevo dalla finestra 
        mi  faceva pensare al tempo  
        che non  sapevo più gestire e 
      al mio  lavoro che non era un lavoro,
       oppure,  che era un lavoro 
        che non  riuscivo a fare… 
        avevo  inventato un modo 
        di  lavorare senza lavoro! 
        Io ero  il mio datore di lavoro, 
        il mio  dottore, ero la mia segretaria e i  
        contributi  per la mia pensione erano 
        di  stima, affetto, raccolti nei bar, dai mendicanti 
        fuori  dall’ipermercato, dalle suore di Calcutta e 
        da  tante commesse a cui portavo 
        caffè e  cioccolatini a sopresa 
      nei  giorni feriali.
      Ora il profumo  di brodo 
        invadeva  la casa e la signora 
      c’invitò  a prendere posto nell’anticucina.
      Dalla  camera uscì in pigiama e mocassini 
        il  padrone di casa, credo, che mi strinse 
        la mano  con entrambe le mani e disse 
        grazie, veramente grazie! 
        Grazie a Voi. 
        No, lei deve solo mangiare e bere, 
        bere fa bene, rigenera la memoria. 
        Sorrisi  per l’affermazione , anzi risi 
        e la  signora rise con me. 
        La  ragazza s’era cambiata 
        e anche  lei indossò il pigiama 
        per  mangiare. 
        L’unico  in pantaloni, camicia e giacca 
        ero io,  perché guardando bene 
       la signora, anche lei aveva la vestaglia!
      Noi dopo pranzo dormiamo un paio d’ore, 
        allunga la vita! 
        Fate una pausa! 
        Sì, poi rigenerati  
        riprendiamo il conto alla rovescia. 
        Sbadigliai. 
        Lo vuole un pigiama di mio marito? 
        Non faccia complimenti, 
        ne ha uno ancora nuovo che gli 
        comprai alla Rinascente di Milano  
        quando Elsa ballava alla Scala. 
        E’ lei Elsa? 
      Sì.
       Sentii  rientrare la bocca dello stomaco 
        e  lentamente guardai la ragazza 
        riflessa  nell’incavo del cucchiaio 
      prima  che s’immergesse nel brodo.
      Va bene, Milano è una città elegante. 
        Vada nella stanza in fondo e 
        si metta comodo, ma si sbrighi 
        che si raffredda.  
        Mi  veniva da ridere, 
        mi  sentivo a mio agio. 
        E’ bello mangiare in pigiama, vero? 
      Verissimo.
      In un  silenzio raro e confortevole, 
        bevemmo  e mangiammo tante cose 
        accompagnati  dalla voce registrata 
        di Dino  Buzzati che leggeva un paio 
        di  capitoli del suo Un amore. 
        Che  bello non cercare sempre 
        argomenti,  ma far parlare 
        la  letteratura che ci fa incontrare 
      attraverso  virgole e punti d’emozione!
      La  ragazza s’alzò e andò a stendersi sul divano.
      La  signora mi raccontò che Elsa sarebbe 
        stata  la protagonista di quel romanzo 
        in una  coreografia, ma poi d’improvviso 
        in una  sera di primavera, gliela uccisero! 
      Allora  era la ragazza, Elsa, la vittima!
      Quando  nell’arte si viene uccisi 
        è  impossibile condurre una vita normale, 
      ecco  perché la signora era invalida!
      Guardai  quel corpo perfetto, 
        volevo  essere il suo coreografo 
      in  questa seconda parte di vita.
      Elsa ha perso la parola, disse il padre 
        e se lei riuscirà a fargliela tornare, 
        questa casa sarà sua e noi  
        potremmo finalmente camminare 
        verso la via dell’infinito,  
      angolo viale del tramonto.
       Mi si  prosciugò il palato,  
        ecco  perché mi disse di bere e bere  
        e lo  feci per cercare in un angolo di ragione 
        una  risposta decente. 
        Forse  doveva andare  
        alla  clinica degli offesi? 
        Cosa  era successo? 
        Perché  la parte più importante di Elsa, 
        quella  artistica, era morta? 
        Morte  apparente, stava dormendo forse, 
        e un  giorno si sarebbe risvegliata 
         ecco perché in quella casa 
         eravamo tutti in pigiama! 
        Mangiava,  camminava, leggeva, guardava, 
      si  vestiva, si spogliava…
      Nell’arte  del teatro si muore e nasce 
      tutte  le sere.
      La  signora cominciò a lavare i piatti, 
        il  marito ancora a tavola, guardava 
        una  vecchia partita di calcio e 
        io mi  sedetti in poltrona  
      con più  pensieri di prima.
      Tra un po’ ti porto un caffè speciale. 
        Grazie signora. 
        Il  sonno mi prese con se e mi portò 
      con  Elsa in un bosco.
      Il bosco delle parole
      Mi  tolsi la maglia, 
        perché  se la tolse anche lei 
        e  camminammo a petto nudo  
        tra  milioni di foglie. 
        Che  sensazione! 
        C’era  il curriculum interiore 
        della  sua vita e potevo leggere bene 
        le  parole della speranza, 
        della  fatica, dei suoi progetti 
        e del  fiore nel suo cuore 
        che  appena sbocciato nell’arte 
        era  stato calpestato e gettato 
      sul  vialetto delle foglie morte..
       Vidi  dov’era quella rosa, 
      con  tanta acqua, forse l’avrei…
      Ecco il caffè! 
        Grazie. 
        Noi ora usciamo. 
        Anch’io devo andare. 
        La prego rimanga, andiamo a messa, 
         un  aperitivo e a cena siamo a casa. 
        Avrei da fare, signora. 
        Non serve intestardirsi  
        sulle vicende della propria vita, 
        ci dia una mano e vedrà 
      che non avrà problemi di salute!
      Ammutolii,  ci tenevo  
        alla  mia presenza sulla terra. 
        Se ne vuole un altro è nella caffettiera. 
        Richiusi  gli occhi 
        fino a  che li sentii uscire 
      e  chiudere la porta.
      Il  sogno che avevo fatto 
        era  significativo e avrei voluto 
       raccontarlo ad Elsa.
      Mi sei venuta a salvare? 
        Io non ho bisogno di parlare, 
        la mia unica espressione è il corpo, 
        se vuoi puoi parlare  
        con le mie mani, le gambe, il collo. 
        Il mio corpo è stato toccato da tutti. 
        Sono una puttana, forse, 
         mi  hanno pagato, 
        mi hanno toccato e strapazzata  
        da quando ero una bambina. 
        Ho vissuto in un film muto e 
        quando ho provato a parlare, 
        mi hanno lasciata in camerino, 
        poi in albergo e poi rispedita qui… 
      Che ne sanno quei due poveracci!
       A Milano per mantenermi, 
        affittavo e subaffittavo  
         nord e  sud del mio corpo, 
        sembrava tutto così poetico, 
        ma era solo fatica e competizione… 
        Oltre a schiacciare questo bel seno 
        ero pressata da un ruolo 
        che si nutriva di luci artificiali. 
        Ho dormito poco in questi anni 
      e voglio riconquistare i sogni.
      Elsa  aveva scritto tutto questo 
      sulla  parete accanto al pianoforte.
      Elsa! Elsa dove sei? 
        Non mi avrài lasciato solo, in pigiama,  
        ad aspettare i tuoi genitori 
        che appena leggeranno quella lettera 
        sul muro moriranno d’infarto? 
        Elsa  rideva di gioia riconquistata 
        sotto  lo scroscio d’acqua della doccia. 
        Vieni che ti lavo, 
      sei sporco di presente!      
      Mi feci  lavare e insaponare l’anima e 
        nudo  con la spugna in mano 
         andai a cancellare  
        quelle  parole dal muro e scrissi 
      ELSA E’ SALVA NON MORITE PIU’
       E uscimmo d’abiti nuovi  
      a riveder le stelle. 
       Non ero  più solo. 
      Non era  più sola.
      Passammo  sotto le finestra della 
        Clinica degli offesi , 
        cominciammo  a urlare e tirare sassi. 
        I  pazienti, erano tanti , 
        s’affacciarono  - uno prese anche 
        una  pigna in fronte- 
        e  increduli e storditi  
        da  farmaci e permanenza,  
      non  riuscivano a parlare.
       Scendete!  
        Adelmo, era questo il mio nome, 
                                                                                ha bisogno d’aiuto  – disse Elsa – 
      e non possiamo lasciarlo  solo!
       Anche Adelmo era  offeso  
        e io, Elsa, per le  offese, non parlavo! 
        E’ vero, ve lo giuro  – dissi io! E continuò… 
        Non ho parlato per  cinque anni, 
        ma grazie ad un  periodo in pigiama, 
        in ascolto solo di  cose belle, 
        ho ritrovato i miei  genitori e  
         incontrato la speranza in un sogno 
        che Adelmo ha  prodotto indossando 
        anche lui il pigiama! 
        E’ tutto vero,  
        dissi tremante ed emozionato 
        e ora che mi sono  vestito 
        d’abiti  nuovi ,vi posso dire che è 
        arrivato il momento  di togliervi 
      il pigiama e  riconquistare la vita!
       Ci fu un lungo silenzio, 
        poi la ricoverata numero 25 che 
         – me la ricordo  bene- 
        aveva il banco dei broccoletti al mercato  
         dove andavo con  mia madre, 
        si spogliò completamente  
        e da quel corpo provato  
        da anni di gelo mattutino 
        gridò dalle mani  
        Voglio la strada 
      a costo di fare la  mignotta!
       L’urlolacerante  spalancò gli occhi, 
         il portone e le  nostre bocche  
        che s’incontrarono  
        in un bacio  
        d’anime indifese 
        così  intenso,  
        talmente divertente, 
          pieno di luce, 
        che  ritrovai tra  le mani 
        la piccola torcia elettrica. 
        La scagliai contro 
        la scritta sotto il terrazzo, 
          si frantumò al suolo 
        e lasciò sospese cinque lettere,  
        come gli anni del silenzio di Elsa, 
         che formarono una  parola,  
        sì, una parola perduta,  
        una parola per la quale  
        m’ero tanto intestardito 
        che nell’oscurità della città  
      sembrava  A M O R E.
       Febbraio 2013
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